Categoria: Libreria di Tiziana

Auch wenn ich hoffe: il diario di Mosche Flinker

Come ben sappiamo, nella recente storia tedesca è presente una macchia indelebile dovuta ad una grande colpa di cui il popolo tedesco del primo Novecento si è macchiato in modo orrendo.

La Seconda Guerra Mondiale ha portato alla luce una Germania pervasa dall’odio, dall’antisemitismo e dalla cattiveria più pura e insensata che si ricordi. È vero, prima e dopo del genocidio nazista di cui ci si è macchiati (soprattutto) in Germania ci sono stati altri genocidi, altre persecuzioni, altre morti inspiegabili ed ingiustificabili. Ciò che rende, però, l’Olocausto così diverso e così terribile è la sistematicità con cui la morte veniva inflitta. Tutto quello che avveniva negli innumerevoli campi di concentramento e sterminio era frutto di calcolo, di decisioni prese a mente fredda, di statistiche. Niente era lasciato al caso. L’unica cosa lasciata al caso era la persona da eliminare: una valeva l’altra, finché si raggiungeva il numero di vittime prefissato per la giornata, poco importava chi effettivamente sarebbe morto.

Delle vittime sappiamo poco, pochissimo. Quasi niente è rimasto di loro: forse un nome, una data di nascita e una di arrivo presso uno dei campi… tante volte non sappiamo neanche l’effettiva data di morte. Della vita nei campi sappiamo, per fortuna, grazie alle testimonianze dei pochi sopravvissuti che col passare del tempo diventano anche sempre meno.

Ma perché questo discorso? Questo discorso perché oggi vorrei parlarvi di un libro, di un diario di una delle tante, troppe vittime di questa tragedia dell’essere umano. Il libro in questione è Auch wenn ich hoffe ed è il diario di un ragazzo di nome Mosche Flinker, nato a L’Aia il 9 ottobre 1926 e morto nel 1945 a Bergen Belsen.

La copertina del libro

La vita di Mosche era una vita come quella di tanti ragazzi dell’epoca ma non appena furono promulgate le leggi razziali, la sua esistenza mutò totalmente e Mosche, insieme alla sua famiglia, scappò dall’Olanda per rifugiarsi a Bruxelles, iniziando a nascondere la sua identità e non poté più condurre una vita normale.

Il suo diario, come quello più famoso di Anna Frank, ci descrive la vita che si trovano a dover affrontare persone del tutto normali che si ritrovano in una situazione completamente aberrante e insopportabile. A differenza del diario di Anna, però, dal diario di Mosche si evince tutta la sua rabbia verso i suoi aguzzini e tutto l’amore, sebbene messo a dura prova dalla tragicità degli eventi. Molto spesso, infatti, l’autore si interroga sul ruolo di Dio e sul senso della sofferenza che il Suo popolo si trova a dover affrontare.

Il diario va dal giorno 24 novembre 1942 (riportato anche con la data ebraica, 15 Kislev 5703) fino al 3 settembre 1943 (3 Elul 5703). Nel maggio del 1944 furono traditi, da un ebreo, che li denunciò alla Gestapo, condannandoli praticamente alla morte.

Dalle informazioni trovate online, sembra che sua madre sia stata mandata immediatamente alle camere a gas, un fratello morì ad Auschwitz, Mosche e il padre morirono di tifo a Bergen Belsen, mentre l’altro fratello e le sue sorelle scamparono miracolosamente alla morte ed emigrarono poi in Israele. Finita la guerra, infatti, furono proprio loro a ritrovare il diario nel piccolo appartamento di Bruxelles dove si era rifugiata la famiglia durante gli anni della persecuzione.

È un testo che consiglio di leggere, se avete voglia di approfondire il tema e se siete curiosi di leggere anche altre testimonianze, forse meno note, ma non per questo meno importanti di quella di Anna Frank.
Io ho letto il libro in tedesco, quasi per caso, e altrettanto per caso ho scoperto che la traduzione in italiano è pessima e dovrebbe addirittura contenere delle censure, rendendo la lingua del libro in un certo senso meno “violenta” (sempre che “violenta” sia la parola corretta).

Nell’epoca che stiamo vivendo è più importante che mai leggere ed informarsi a riguardo del male che è già esistito e che già è stato perpetrato. Solo la conoscenza di ciò che è stato e potrebbe di nuovo essere può spingerci a lottare per un mondo più giusto e per un mondo di pace. Perché non succeda mai più ciò che già è successo, per far sì che le vite di Mosche, di Anna, di tantissimi, troppi, altri, non siano finite invano.

Autore: Mosche Fliker
Titolo dell’opera: >> Auch wenn ich hoffe << Das Tagebuch des Mosche Flinker
Titolo originale dell’opera: Jomano sjel Mosjé Flinker
Numero di pagine: 167
Voto: 4/5
Dove trovarlo: cartaceo, ebook

Noi, i ragazzi dello Zoo di Berlino

Noi, i ragazzi dello Zoo di Berlino è probabilmente uno dei libri più letti e famosi di tutti i tempi e sebbene non si tratti di un testo di alta letteratura, resta comunque un libro di grandissima importanza.

Wir Kinder vom Bahnhof Zoo tratta della storia di Christiane Vera Felscherinow, diventata poi famosa come Christiane F., della sua dipendenza dalle droghe, della sua caduta nella spirale di dipendenza, prostituzione e morte.

Christiane F.

La sua intervista rilasciata ai giornalisti Kai Hermann e Horst Rieck diventa un caso mediatico. Per la prima volta si parla apertamente del problema della droga, di ciò che comporta, di ciò che causa.
Christiane con le sue parole ci racconta della sua discesa verso gli inferi, iniziata con dell’hashish e dell’LSD per poi finire, a 14 anni, a bucarsi per la prima volta di eroina. Ci racconta senza mezzi termini, senza indorarci la pillola, della sua vita di ragazzina che a 14 anni inizia a prostituirsi per assicurarsi la prossima dose.
Ci racconta di uomini, adulti, che consapevoli dell’inferno personale di questi poco più che bambini, approfittano di loro acquistando (indirettamente) le dosi che li avvicineranno ogni giorno di più alla morte.
Christiane ci racconterà degli amici caduti per mano di questa terribile dipendenza, ci racconterà del suo amore tormentato e tormentoso con Detlef e ci racconterà dei suoi tentativi di disintossicazione falliti.

Ricordo di aver letto questo libro tutto d’un fiato, quando avevo 20 anni. Mi lasciava senza parole e con un senso di angoscia indicibile leggere di ciò che era stata parte dell’adolescenza di Christiane. Ricordo che leggendo quelle parole mi veniva quasi da essere grata per il mio essere sempre stata così lontana dal mondo delle dipendenze, sia per ingenuità che per paura.

La storia di Christiane si svolge soprattutto tra Gropiusstadt (sottoquartiere di Neukölln), dove si trova casa sua, e il quartiere di Tiergarten (dove si trova lo Zoologischer Garten).
Oggi, la stazione U-Bahn (metropolitana) di Gropiusstadt è stata rinominata Johannistahler Chaussee e il quartiere di Gropiusstadt rimodernizzato e, grazie a numerosi investimenti, la zona è stata resa più moderna e vivibile.

La copertina del libro

Dopo la pubblicazione dell’intervista sullo Stern, Christiane F. è diventata, suo malgrado, una star: negli anni successivi alla pubblicazione del libro, infatti, prende parte ad alcuni film e tenta anche la carriera musicale. QUI una sua performance con Alexander Hacke (nel video Alexander von Borsig) degli Einstürzende Neubauten (di cui sicuramente vi parlerò a breve in uno dei prossimi articoli).
Come è ben immaginabile, Christiane non è mai veramente uscita dalla sua dipendenza ma anzi, la sua fama e la sua conseguente disponibilità economica non hanno fatto altro che renderle più accessibili le sostanze stupefacenti, facendola ricadere più volte nel vertice della droga.

Trovo che Noi, i Ragazzi dello Zoo di Berlino dovrebbe essere una lettura consigliata nelle scuole perché sono sicura darebbe modo a molti di riflettere e, forse, di evitare di ritrovarsi in un mondo dal quale tragicamente troppo spesso non c’è via d’uscita se non con la morte.

Autore: Christiane F. (con Kai Hermann e Horst Rieck)
Titolo dell’opera: Noi, i Ragazzi dello Zoo di Berlino
Titolo originale dell’opera: Wir Kinder vom Bahnhof Zoo
Numero di pagine: 358
Voto: 4/5
Dove trovarlo: libro, audiolibro, film

Der Tastenficker – L’autobiografia di un rocker coi piedi per terra

Come mi è già capitato di raccontare in post precedenti, la mia più grande passione è la musica.

La musica per me è una fedele amica che mi accompagna da sempre, dalla mia più tenera età. È un’amica che fa da sottofondo ai miei sogni e alle mie speranze ed è un’amica che ha avuto un impatto così forte su di me, che è riuscita ad influenzare anche alcune mie scelte di vita che, apparentemente, non hanno nulla a che fare con ciò che ascolto.

Eppure… Da giovanissima liceale, annoiata e malinconica, mi rifugiavo sempre nell’ascolto di qualche disco che riuscisse a dare anche a me, che all’epoca ero più timida di adesso, la sensazione di poter spaccare il mondo e ribellarmi, appunto, alla noia di un’adolescenza trascorsa in un paesino di 3000 anime.

Cercando, quindi, qualcosa che potesse far sfogare le mie giovani frustrazioni, mi ritrovai a fare la conoscenza dei Rammstein.
I Rammstein suonavano un irresistibile industrial metal e cantavano in tedesco… cosa poteva esserci di meglio per me, già allora innamorata di questa lingua croce e delizia di molti di noi?

Mi appassionai, tantissimo, ritagliavo articoli di giornale, collezionavo i loro dischi. Da buona fangirl sognavo di poter leggere le loro biografie e poter entrare ancora di più nel loro mondo.

Il 22 marzo 2016 il Dio della musica ascolta le mie preghiere ed ecco che nelle librerie esce Der Tastenficker: An was ich mich erinnern kann autobiografia di Christian “Flake” Lorenz, tastierista della band.

Flake nel 2018

Attenzione però: Questo libro non parla dei Rammstein, non parla di come sono nati e non svela nessun segreto riguardo alla band tedesca con (probabilmente) più successo della storia (che ci piaccia o no…).
Il libro è una raccolta di ricordi, che iniziano dalla sua infanzia nel quartiere di Prenzlauer Berg, all’epoca profonda Germania Est e che oggi, invece, si è trasformato in uno dei quartieri più in e costosi della città.
Nel libro, scritto in un tedesco molto accessibile a coloro i quali abbiano un po’ di dimistichezza con la lingua, ci mostra il lato umano del musicista e ci mostra un uomo semplice, un uomo coi piedi per terra, ironico e autoironico che, come tutti noi, combatte contro le difficoltà giornaliere che lui stesso si crea.

Questo libro di Flake è stato una lettura, per me, meravigliosa. La scoperta di una persona dall’animo profondamente gentile e per niente cambiata dal successo. Come un vecchio amico che rivedi dopo tanto tempo e col quale hai una smodata voglia di andare in una Kneipe a bere una (o più) birra.

La copertina dell’opera

Il testo si trova, purtroppo, solo in tedesco e questo è un vero peccato perché so che molti fan italiani dei Rammstein acquisterebbero subito il libro per poter leggere un po’ delle (dis)avventure di Flake che, dei 6 Rammstein, è sicuramente quello con cui mi piacerebbe essere amica!

Il titolo è l’unione di Tasten -> tasti e Ficker -> co***ne.
A te l’arduo compito di trovare una traduzione in italiano che faccia giustizia al gioco di parole in tedesco!

Autore: Christian “Flake” Lorenz
Titolo dell’opera: Der Tastenficker: An was ich mich erinnern kann
Titolo originale dell’opera: come sopra
Numero di pagine: 392
Voto: 5/5
Dove trovarlo: Amazon; audiobook

Max, ovvero il bambino del futuro

Quando ho iniziato a leggere Max, stavo rimanendo molto delusa.

Ero delusa da lui, da Max, da questo bambino concepito senza amore, senza null’altro che forza e rabbia e mi deludeva il fatto che questo neonato, questo bambino, non sapesse far altro che odiare.

Mi sembrava assurdo dover costruire un libro su una figura prevedibile, quasi banale e dopo poche pagine, sbagliando, mi ero fatta quasi l’idea che avrei letto un libro in cui non si faceva altro che parlare di un bambino nato cattivo, per essere cattivo e che avrebbe finito solo col diventare ancora più cattivo di quello che poteva essere all’inizio.

Ero delusa, davvero! Avevo iniziato il libro piena di grandi aspettative, soprattutto perché anche Silvia ne era rimasta entusiasta quando l’aveva letto.

Ma poi qualcosa ha iniziato a cambiare e più si andava avanti con la narrazione e lentamente Max diventava Konrad, il tutto si faceva più interessante… Perché sebbene Konrad era destinato a diventare il prototipo del bambino ariano, il prototipo della razza considerata superiore all’interno del Terzo Reich, proprio mentre veniva educato a diventare il tedesco perfetto, ecco che in lui cominciano a nascere delle sensazioni e delle emozioni che lui per primo non sa spiegarsi.

Nato il 20 aprile 1936, Max è il primissimo bambino a nascere nel centro di Steinhöring, alla periferia di Monaco. Steinhöring è uno dei centri in cui si porta avanti il cosiddetto Progetto Lebensborn.

Durante gli anni bui del Terzo Reich tedesco, infatti, i capi del partito Nazionalsocialista avevano deciso che l’unico modo di mandare avanti la razza ariana, oltre a quello di sterminare le altre, era quello di creare meccanicamente e sistematicamente la razza del futuro: la modalità era quella di far accoppiare donne ariane (o che comunque avessero le caratteristiche della razza) con le SS, che ariane dovevano esserlo per forza.
Se ti interessa la storia del Progetto Lebensborn che, ci tengo a sottolineare, non è qualcosa di inventato ma di realmente e tragicamente esistito, clicca QUI.

Ma torniamo al nostro Max, che si appresta a diventare Konrad: essendo il primissimo frutto del Progetto Lebensborn ed essendo nato proprio nello stesso giorno del Führer, sarà proprio Adolf Hitler a presiedere alla sua cerimonia di Namensgebung, ovvero imposizione del nome. La versione nazista del battesimo cristiano. Il suo nuovo nome sarà Konrad von Knebersol.

Il Lebensborn prevede che i bambini fabbricati dalle Frauen e dalle SS vengano dati poi in adozione ad altre famiglie altrettanto ariane che proseguiranno nel progetto di crescere dei piccoli perfetti tedeschi. Allo stesso modo, il Progetto Lebensborn prevedeva la germanizzazione anche di bambini non tedeschi ma che avessero, comunque, le caratteristiche fisiche della razza ariana (alti, slanciati, occhi azzurri, capelli biondi, etc…). I bambini venivano rapiti, strappati via alle loro famiglie e rinchiusi in scuole/collegi che dovevano servire a cancellarne qualsiasi ricordo della famiglia, delle abitudini, della vita precedente a quella iniziata con la germanizzazione. Durante gli anni della guerra, infatti, migliaia e migliaia di bambini sono stati strappati alle loro famiglie e portati in Germania per poi essere dati in adozione a famiglie tedesche.

Copertina del libro

Max/Konrad rischia di morire da piccolissimo, quando una donna lo rapisce e lo porta con sé. La donna è vestita da prigioniera, è magrissima, spaventosa, sporca… Eppure accudisce Max, tenta di allattarlo, tenta di dargli calore e, in una delle notti in cui Max è con lei, disperso perché le infermiere del centro Steinhöring non riescono a trovarlo, la donna muore, tenendo Max tra le sue braccia.

Questo è solo uno dei traumi che lui subisce, traumi che in realtà diventano ancora più profondi perché Max/Konrad non si lascia mai andare, non si arrende mai al dolore, non si concede mai di provare sentimenti come un qualsiasi altro bambino della sua età.
Lui dimentica la parola madre, dimentica il significato di essa. Non ha una famiglia, non ha amici, non ha amore e non sa cosa possa voler dire amare o essere amati.

Diventa un vero collaboratore delle SS e, da piccolissimo inizia ad aiutarli a rapire altri bambini, per lo più polacchi che poi dovranno subire delle selezioni, per poter stabilire se sono abbastanza ariani da essere germanizzati o se dovranno essere risistemati in qualche campo di concentramento.

Quando entra in contatto con il mondo esteriore, Max/Konrad pur mantenendo le sue convinzioni sulla sua superiorità e sulla superiorità della sua razza, inizia ad avere dei dubbi, inizia a farsi delle domande, inizia ad avere dei mal di pancia che lo terranno sveglio di notte e che lui non riesce a spiegarsi, ma altro non sono se non la sua emotività che, a forza di essere repressa, deve pur manifestarsi in qualche modo. Inizierà a farsi degli amici, amici polacchi!, amici non veramente ariani e quando qualcuno di questi morirà, lui soffrirà e non saprà spiegarselo. Ma più la sua sofferenza aumenterà e più il dubbio si insinuerà nella sua mente.

La sua trasformazione, non completa, ma decisiva seppur non immediatamente effettiva, inizierà con l’incontro di Lucjan, poi ribattezzato Lukas, un ragazzo polacco che diventerà per Max diventerà nei mesi a venire una figura fraterna, con la quale instaurerà un rapporto di amore e odio, sfociato poi in un affetto fraterno mai veramente dichiarato a parole.

Non so, credo di aver parlato in modo veramente confuso di questo libro… La trama di questo vero e proprio romanzo di formazione è talmente tanto intrecciata alla storia, quella vera, che probabilmente è impossibile scindere una cosa dall’altra. È un libro molto bello, ma ancora più bello perché in realtà ti stimola a volerne sapere di più… a voler veramente capire cos’era veramente il Progetto Lebensborn, un qualcosa di aberrante ma di così recente da far accapponare ancora di più la pelle.

Per me Max è stato un romanzo sul dubbio e sulla forza del mettere in dubbio ciò che a cui si è creduto ciecamente, un romanzo che forse vuole farci capire che perfino gli odi e le menzogne più grandi e violenti possono essere sbriciolati dalla verità, se abbiamo modo di entrare in contatto con un mondo che ci sembra lontano anni luce da noi.

Autore: Sarah Cohen-Scali
Titolo dell’opera: Max
Titolo originale dell’opera: Max
Numero di pagine: 441
Voto: 5/5
Dove trovarlo: libro

Dobbiamo Parlare di Kevin

Una mia conoscente, tanti anni fa, mi consigliò questo libro. Lei lo aveva letto da poco e, essendole rimasto molto impresso, decise di consigliarmelo perché era sicura, a ragione, che sarebbe piaciuto molto anche a me.

Dobbiamo Parlare di Kevin è quello che si definirebbe un romanzo epistolare e parla della vita, o meglio, di parte della vita della famiglia Khatchadourian/Plaskett.

Eva Khatchadourian, protagonista insieme a Kevin del nostro libro, è una donna forte, indipendente, che ama la sua carriera e non ha voglia di maternità o di famiglia, perché sa che rimanere incinta sarebbe un grande ostacolo per il suo lavoro.
Eva è innamorata di Franklin Plaskett, un uomo che, invece, ha voglia di costruire famiglia.
Eva resta incinta ed è per lei un duro colpo. Nasce Kevin, che dai suoi primissimi giorni dimostra essere un bambino particolare, dotato di una cattiveria fuori dal comune. La malvagità di Kevin, però, si manifesta solo ed esclusivamente quando lui è con sua madre. Non appena suo padre, Franklin, è presente, Kevin si trasforma: dal bambino cattivo, diabolico e spietato che conosce Eva, si trasforma in un bambino tenero, affettuoso, amabile.
Kevin è un bambino difficile, problematico, che sembra non avere interesse per niente, sembra di essere nato solo per poter provocare sua madre. Kevin ha un solo grande interesse: il tiro con l’arco.
Quando ha 9 anni, nasce sua sorella, Clelia, una bambina dolcissima, tenera, amorevole. Il suo opposto.
Clelia è una bimba che ama tutti, incondizionatamente: Eva prova finalmente cosa vuol dire essere amata da un figlio. Quando Clelia ha 6 anni, ha un incidente: perde un occhio in un incidente sospetto. A quanto pare, infatti, la bambina si versa sul viso della candeggina che però Eva è sicura di aver riposto in un luogo lontano e al sicuro e comincia a sospettare di Kevin. Il sospetto cresce così tanto che lei ne parla con Franklin che, esasperato, chiede il divorzio… Il peggio, però, deve ancora venire perché, se la colpevolzza di Kevin nell’incidente di Clelia non può essere provata, il suo coinvolgimento e colpevolezza in quello che da lì a poco succederà è sotto gli occhi di tutti e sconvolgerà, per sempre, la vita di Eva e di tutta la famiglia…

Basta così! Non voglio raccontare troppo, la trama di questo libro è avvincente, riserva tante sorprese, sebbene quasi tutte totalmente negative. È una lettura che ti cattura, che ti incolla alle pagine.

La copertina del libro

È un libro che, per certi versi, non è così semplice leggere, perché i temi trattati sono cupi, tristi, sconvolgenti. È un libro che parla di una madre che inizia ad imparare ad amare il proprio figlio nel momento in cui sembra più impossibile, proprio quando la speranza di provare un sentimento puro è quasi del tutto svanita.
Una storia che, nonostante il tema così spinoso, ho amato molto e che consiglio sempre a tutti, ogni volta che qualcuno mi chiede un consiglio letterario.

Nel 2011 è uscito anche un adattamento cinematografico del libro, con Tilda Swinton nei panni di Eva e Ezra Miller nei panni di Kevin.
Ammetto di non aver visto il film, se non pochi minuti… Tempo fa era su Netflix (almeno in Germania), ma non credo ci sia più.

E tu? Hai letto Dobbiamo Parlare di Kevin? Cosa ne pensi? O magari hai visto il film e ti basta quello?

Autore: Lionel Shriver
Titolo dell’opera: Dobbiamo parlare di Kevin
Titolo originale dell’opera: We Need to Talk About Kevin
Numero di pagine: 478
Voto: 4/5
Dove trovarlo: *si trova solo in inglese*

L’Uomo Montagna

Non ricordo più come sono venuta a sapere di questa graphic novel: è stato tramite Instagram? Tramite forse YouTube? E, seppure riuscissi a ricordare dove ho visto questo libro per la prima volta, non riuscirei comunque a ricordare chi era la persona dalla quale ne ho sentito parlare per la prima volta.

Solitamente non leggo molte graphic novel perché non è un genere che mi attira molto, ma in questo caso sono stata subito attratta da questo libro. Probabilmente era uno di quei momenti in cui ti capita di venire in qualche modo a contatto con qualcosa che si rivela essere la cosa giusta al momento giusto.

L’Uomo Montagna ci introduce in una breve storia (il libro è davvero brevissimo) di un’intensità incredibile. Ci parla di un nonno che si prepara a partire per il suo ultimo viaggio ma che è impossibilitato a muoversi a causa delle montagne che gli sono cresciute sulle spalle; parla del suo nipotino che, vista l’impossibilità del nonno a muoversi, parte per il suo primo viaggio da solo. Un viaggio che lo porterà a cercare il vento più potente che può trovare, per chiedergli di aiutare suo nonno a muovere quelle pesantissime montagne che gli sono cresciute sulle spalle.

L’Uomo Montagna è una delicatissima metafora sugli ultimi anni della vita, ma anche sulle prime esperienze che ci troviamo a fare, senza neanche rendercene conto, da piccoli. Quando tutto il nostro mondo si concentra nei nostri familiari e nelle nostre radici, che sono la parte più vera di noi, la parte più intima e quella a cui cerchiamo di tornare. Perché le nostre radici sono la nostra vera eredità, sono dove abiterai. È qui che tornerai, che ti sentirai a casa. Non hai forse detto che riconosceresti queste montagne tra mille?

Autore: Séverine Gauthier; Amélie Fléchais
Titolo dell’opera: L’Uomo Montagna
Titolo originale dell’opera: L’Homme montagne
Numero di pagine: 42
Voto: 5/5
Dove trovarlo: libro

A Voce Alta, un romanzo sulla vergogna

La domanda che più volte mi sono posta mentre leggevo questo libro e pensavo che ne avrei scritto una recensione era come avrei potuto parlare, rendendogli giustizia, di un testo che ha così tante sfaccettature, affronta così tanti tempi, senza fare spoiler ma riuscendo ad incuriosire le persone che, forse, leggeranno queste righe.

Siamo negli anni ’50 dello scorso secolo, in Germania, più probabilmente* ad Heidelberg, città del Baden-Württemberg. *L’autore non rivela mai con chiarezza qual è la città dove si svolgono i fatti, lo si evince, però, da alcuni riferimenti geografici. Ma torniamo a noi: il quindicenne Micheal Berg, in un lunedì non meglio specificato d’autunno, mentre torna da scuola, si sente male e in preda ad un violento attacco di nausea, è costretto a dare di stomaco per strada. Una donna lo vede, lo aiuta a ripulirsi e lo riaccompagna a casa. La sera stessa, dopo la visita del medico di famiglia, a Micheal viene diagnosticata l‘itterizia e gli vengono prescritti diversi mesi di riposo assoluto.

Durante i mesi di degenza, noiosissimi per il nostro protagonista, non pensa all’episodio con la donna finché un giorno lo racconta alla madre che lo convince del fatto che non appena si sarà rimesso, dovrà andare a trovare quella donna e ringraziarla per il suo aiuto. Una volta ripresosi, quindi, Michael farà esattamente quello che gli avevo consigliato sua madre e, con alcuni risparmi messi da parte durante i mesi di degenza, compra dei fiori e va a trovare Hanna Schmitz, la donna che con un piccolo gesto tanto gli era stata vicina in un momento di difficoltà.

Da questo momento in poi, le vite di Michael e Hanna si intrecceranno per sempre, prima con una storia d’amore travagliata (anche per l’età dei protagonisti – Michael 15 e Hanna 36) e che porterà la coppia a vivere momenti di intensissima intimità e amore, ma anche momenti di rabbia che risulteranno incomprensibili soprattutto a Michael e poi attraverso un incontro fortuito, molti anni dopo, che svelerà tutti i terribili segreti di cui è pieno il passato di Hanna.

Il titolo dell’opera (Der Vorleser in tedesco; A Voce Alta in italiano) fa riferimento al fatto che Hanna amava che Michael leggesse, quasi recitasse, per lei, a voce alta, quanti più libri possibile.

Nel leggere questo libro, mi sono ritrovata più volte a chiedermi perché il testo venga così spesso consigliato a persone che vogliano provare, per la prima volta, a leggere un libro in tedesco. Sebbene la lingua non sia effettivamente difficile (soprattutto nella prima parte) e i capitoli siano molto corti, penso che i temi affrontati dalla seconda parte in poi, non siano temi così semplici da essere semplicemente letti come esercizio di lingua.

Il libro parla di giustizia e di come dovrebbe venire applicata, parla di un passato difficile da affrontare ma impossibile da ignorare e dimenticare. Parla di colpa, individuale e collettiva, che poi, per ovvi motivi, è un tema molto centrale di grandissima parte della letteratura tedesca del secondo dopoguerra. Parla di nuove generazioni che odiano le generazioni precedenti ed addossano loro tutte le colpe di un passato ignobile.
Ma di questo ha già parlato chiunque si sia occupato di questo libro.

Quello che, invece, ha toccato me, più profondamente, è il sentimento della vergogna: quella vergogna che ci spinge a scelte sbagliate, quella vergogna che ci attanaglia e che ci riduce a quello che forse non siamo ma che diventiamo perché pensiamo di non avere alternative. Quel sentimento di odio verso noi stessi che ci porta a preferire di essere odiati per qualcosa che probabilmente non siamo, ma che preferiamo a noi stessi. La convinzione di non poter chiedere aiuto e, in alcuni casi, doversi abbassare a diventare criminali. Un senso di impotenza che, però, non ci rende meno colpevoli, anzi, ci rende solo più disprezzabili e attaccabili. Perché avremmo potuto fare la cosa giusta, o forse solo meno sbagliata, se avessimo avuto quanto meno il coraggio di accettare i nostri limiti cercando di superarli.

Autore: Bernhard Schlink
Titolo dell’opera: A Voce Alta (Il Lettore nella nuova traduzione)
Titolo originale dell’opera: Der Vorleser
Numero di pagine: 184 (in italiano), 207 (in tedesco)
Voto: 5/5
Dove trovarlo: libro

Se niente importa… Una riflessione.

Da qualche tempo a questa parte, già molto prima che la pandemia Covid-19 ci mettesse di fronte alla vera fragilità del nostro pianeta, della nostra salute e delle nostre convinzioni , mi ero ritrovata a riflettere sulla probabilità di provare a cambiare le mie abitudini alimentari, per cercare di eliminare completamente il consumo di carne e pesce dalla mia dieta.

L’alimentazione, ma più precisamente il piacere derivante dal mangiare un qualcosa di appetitoso, è un elemento centrale della vita di ognuno di noi e per questo, ogni tentativo di cambiare certe abitudini con le quali nasciamo, cresciamo e diventiamo adulti diventa incredibilmente difficile, se non troviamo qualcosa che, per noi e per la nostra sensibilità, ci spinge a fare un passo che non sempre sarà semplice non rimpiangere.

Ad inizio maggio, quando ancora ci sembrava di vivere in un racconto distopico, ho iniziato a leggere il saggio di Jonathan Safran Foer intitolato Se niente importa. Perché mangiamo gli animali? e mi sono resa conto che era la sveglia o, per meglio dire, la terapia d’urto di cui avevo bisogno.

Il saggio riporta molti dei dati (anche dell’OMS) raccolti dall’autore in tre anni di ricerche, interviste ad attivisti animalisti e allevatori e riflessioni sull’eticità delle nostre scelte alimentari.

Il quadro che ne esce è nella stragrande maggioranza dei casi totalmente sconcertante: il maltrattamento inaudito nei confronti di animali fatti nascere e crescere in modo totalmente meccanico, a cui viene tolta la possibilità di avere uno spazio entro il quale muoversi, a cui viene tolta la possibilità di vedere la luce del sole, a cui viene tolta la possibilità di poter essere sani – essendo costantemente imbottiti di medicinali che velocizzano la loro crescita ma ne annullano il sistema immunitario -, a cui viene tolta la possibilità di vivere.

Animali annullati della loro dignità e della loro forza, animali vivi costretti in spazi strettissimi insieme ad altri animali malati o morti o in putrefazione. Un covo di potenziali batteri che causano malattie mortali che non aspetta altro di diffondersi in più organismi possibili, tra cui quello umano, attraverso lo spillover, ovvero il salto di specie.

Ci ricorda qualcosa?

L’autore ci porta con sé e ci fa vedere, attraverso i suoi occhi, quello che vede lui quando, insieme ad un’attivista per i diritti degli animali, ci fa intrufolare in un allevamento intensivo, in piena notte, rischiando la pelle per il semplice fatto di essere lì. Perché riuscire ad avere il permesso di visitare un allevamento intensivo, semplicemente, è impossibile. Ci viene raccontato di come i governi si impegnino falsamente per garantire agli animali la dignità che meriterebbero, e ci viene raccontato di come i pezzi da novanta dell’industria agroalimentare siano invischiati fino ai capelli con la politica e di quanto siano troppo potenti per poter pensare di fare qualsiasi cosa per fermarli o per, almeno, imporgli di adottare dei metodi di macellazione dignitosi e che non infliggano sofferenze sadiche e crudele agli animali.

Il libro è stato pubblicato nel 2009 e leggerlo nel bel mezzo di un lockdown indetto per provare a contenere una pandemia diffusasi da un wet market di Wuhan mi è sembrato quasi uno scherzo di pessimo gusto fattomi dal destino, perché leggere in un libro di 11 anni fa delle ricerche e dati pubblicati dall’Organizzazione Mondiale della Sanità e vedere quanto fosse chiaro allora (e chissà da quanto tempo prima) che la situazione sanitaria mondiale era una bomba ad orologeria destinata a scoppiare da un momento all’altro, perché lo sfruttamento degli animali, l’allevamento intensivo, la mancanza di norme igieniche avrebbero finito col portare allo scoppiare di una nuova ed incontrollabile malattia, fa rabbia. Ma anche tanta tristezza.

Il titolo in italiano dell’opera, prende spunto da una conversazione avuta in gioventù dall’autore con sua nonna, sopravvissuta all’Olocausto che gli raccontava che una volta fuori dal campo di concentramento, un contadino russo le aveva offerto un pezzo di carne di maiale che lei, nonostante la fame, rifiutò perché non kosher, perché se niente importa, non c’è niente da salvare.

Voglio concludere questo articolo con la riflessione che, forse, più di tutto mi ha colpita durante la lettura e che più di tutto mi ha spinta a prendere una decisione che è mia e che non imporrei comunque ad altri: il piacere che noi proviamo nel mangiare carne e/o pesce, giustifica tutte le sofferenze che infliggiamo agli animali? Cinque minuti di nostro piacere giustificano intere vite di privazioni, maltrattamenti e dolore come quelle che riserviamo agli animali? Secondo me no. Tu, invece, cosa ne pensi?

La copertina dell’opera
Autore: Jonathan Safran Foer
Titolo dell’opera: Se niente importa. Perché mangiamo gli animali?
Titolo originale dell’opera: Eating Animals
Numero di pagine: 363
Voto: 5/5
Dove trovarlo: libro, ebook, audiolibro