Categoria: Letteratura americana

Yanagihara racconta davvero una vita come tante?

Ci sono dei libri che mi trovo “costretta” a leggere, perché non mi piace criticare o elogiare qualcosa solo per sentito dire, quindi devo creare la mia opinione avendo la cosa sotto mano.

Una vita come tante è un libro che crea molte aspettative. Chi lo ha letto dice che si piange dall’inizio alla fine. Una influencer ha iniziato a piangere a pagina 40, ma probabilmente era nella fase premestruale. C’è addirittura chi dice di non poter fare null’altro dopo aver girato l’ultima pagina perché la vita sembra vuota.

Puoi ben capire che iniziare questo romanzo di mille pagine – nella traduzione italiana – è stato quasi come firmare un contratto con il mio cuore. Ogni pagina era un’analisi nell’attesa della lacrima, che – spoiler alert – è arrivata solo all’ultimo capitolo.

Di cosa parla Una vita come tante

Il titolo vuole suggerire che le 1000 pagine del libro raccontino una vita, come la tua e come la mia, come tante ce ne sono in questo mondo. La vita di Jude, che all’università incontra i migliori amici: Willem, Malcom e JB.

Tutti e quattro frequentano Yale. Willem è di origini svedesi, cresciuto in un ranch nel Wyoming con un fratello disabile e dei genitori anaffettivi. Malcom un ragazzo di colore molto ricco, che cerca di rendere orgogliosi i genitori ogni giorno della sua vita. Jean Baptiste un ragazzo di origini haitiane che, per omologarsi alle aspettative della società a scuola raccontava di provenire da una famiglia disagiata, invece la madre è preside di un liceo e lui il cocco delle zie e della nonna con le quali vive.

Infine c’è Jude, il bambino, ragazzo e poi uomo, di cui conosciamo tutto e attorno al quale girano le vicende dei quattro amici. Lui è la stella attorno alla quale orbita tutta la storia e che dirige le dinamiche dell’amicizia.

Cosa succede dopo aver letto Una vita come tante

Ho finito il libro ormai quasi un mese fa e ancora non sono riuscita ad immergermi nella storia di qualcun altro. Subito dopo averlo finito e aver asciugato le lacrime e soffiato il naso, stavo bene, dopotutto è solo un libro e una storia inventata. Eppure dopo alcuni giorni, mi mancava leggere le storie di Willem, Malcom, Jude e JB, in qualche modo la scrittura della Yanagihara riesce ad entrarti dentro.

Sicuramente la scrittrice scrive bene, ma potremmo dire che “le piace leggersi”, un po’ come le persone che parlano senza sosta perché gli piace il suono della loro voce. Diciamo che di quelle 1100 pagine un buon quarto avrebbe potuto essere tagliato.

Ci sono delle descrizioni di fatti che poi non trovano alcun riscontro nelle pagine successive. Credo che Hanya Yanigihara abbia saltato l’insegnamento di Cechov, secondo cui se viene mostrata una pistola, allora questa sparerà. Questo lo si può interpretare anche come: mostra solo ciò che è veramente inerente alla trama. Avrei saltato volentieri tutte le scene descrittive della preparazione e del trucco di Willem, ad esempio, perché non hanno aggiunto nulla al libro.

La critica che è stata maggiormente mossa, nascosta da una miriade di elogi, è che questo libro faccia uno sfoggio estremo del dolore. Quando leggevo mi chiedevo se Yanigihara non avesse per caso un sacchetto pieno di bigliettini con le disgrazie del mondo e attingesse a caso da quello per continuare la storia. Una disgrazia dopo l’altra.

Questo libro mi ricordava i racconti che ci assegnavano alle elementari. La mia amica Alice ed io li terminavamo sempre con: Pietro cade dalla rupe, si rompe la testa pestandola su un masso e muore. Certo Yanigihara articola molto meglio la sofferenza, ma era veramente così necessario accorpare tanti eventi uno peggio dell’altro in una sola persona?

Un’ultima cosa, prima di spingermi nella parte che, se non hai letto il libro, ti consiglio di tralasciare e tornare qui a leggere solo dopo che anche tu avrai detto addio a Jude, Willem, Malcom e JB. In inglese il titolo è A Little Life, letteralmente Una vita piccola, ma nessuna vita dei quattro amici lo è. Tutti e quattro eccellono nei loro ambiti di carriera, ma è veramente possibile che di quattro amici, tutti siano il meglio che il mercato possa offrire? Non credo si sia mai visto che in un gruppo di amici tutti diventino ricchi e conosciuti, neppure se tutti hanno studiato a Yale.

Il libro mi è piaciuto, molto, ma non a fondo, secondo me è un’esagerazione nei sensi della vita e della sofferenza. Mi rifiuto di pensare che qualcuno abbia sofferto così tanto, ma pure che tutti siano così trionfanti nella vita, restando comunque genuini e buoni di cuore. Qualcuno si, ma non tutti come in questo libro! Non è una vita come tante, è una vita particolare, quattro vite straordinarie, nel senso di fuori dall’ordinario!

Jude St. Francis

Jude è un orfano e ha un problema alle gambe che non gli permette di camminare normalmente, anzi gli provoca veri e propri dolori lancinanti che gli bloccano temporaneamente la vita.

Viene sempre descritto come un bel ragazzo, timido e molto riservato, ma estremamente intelligente e gentile. Sembra essere sbucato fuori dal nulla, perché i suoi amici non sanno nulla del suo passato. È arrivato all’università portando tutti i suoi averi dentro uno zaino e prima di allora non aveva mai usato un computer.

Di lui non si sa e non si capisce neanche la provenienza etnica, cosa che disturba JB. Appena nato è stato abbandonato vicino ad un cassonetto e trovato e ospitato da dei frati nel monastero dove vivevano. Jude cresce quindi con degli uomini di Chiesa che fanno di lui un po’ quello che vogliono: lo picchiano, lo puniscono, si fanno trovare nella sua stanza con l’oscurità e decidono che non dovrà possedere mai nulla.

Mi sono chiesta come fosse possibile che questi Frati si fossero presi cura di un bambino in fasce, perché proprio non riesco ad immaginarmi questa scena, ma sebbene Hanya Yanigihara si sia informata dettagliatamente sulla malattia di Jude, in modo da far risultare il tutto più credibile, possibile che non abbia pensato che a qualcuno potesse venire il dubbio sui primi anni della vita di Jude.?Per chiarire da subito: Jude è il nome inglese di Giuda Taddeo, chiaramente scelto dai frati.

In tutto il monastero l’unica persona che è gentile con lui è fratello Luke, quindi, quando questo gli chiede di scappare con lui, il bambino di 8 anni non se lo fa ripetere due volte e sale in macchina, con la speranza nel cuore che Luke diventi suo padre. Invece si trasformerà nel suo protettore ed amante.

Fratello Luke raggira il bambino Jude dicendo di non avere più soldi per comprare la casa in mezzo al bosco che gli aveva promesso dove essere finalmente una famiglia, allora il bimbo dice di poter lavorare per aiutarlo, peccato che il lavoro proposto era soddisfare sessualmente i pedofili delle città dove si rifugiavano.

Questa è la vita che è costretto a fare dagli 8/9 anni fino ai 12 anni, quando la polizia irrompe nella camera d’albergo e Fratello Luke si impicca in bagno. Altro punto dolente della realtà di questo libro: dove ha trovato la corda per impiccarsi, dove l’ha appesa, aveva sempre una corda di riserva nell’attesa di compiere suicidio? Mistero.

Jude viene quindi portato nell’orfanotrofio e pure qui viene abusato dagli assistenti. Siccome non bastavano le violenze sessuali viene picchiato con una scopa così forte che le schegge di legno gli rimangono sotto pelle, infettandola e provocando delle orribili cicatrici, delle quali si vergognerà tutta la vita.

Durante uno di questi abusi notturni nella stalla, dopo essere stato soddisfatto il suo aguzzino si addormenta sopra di lui, offrendogli la possibilità di scappare. Jude corre quindi verso la libertà. Però non ha soldi per comprare un biglietto dell’autobus, e si trova costretto a vendere il suo corpo ai camionisti in cambio di un passaggio.

Spossato a causa delle malattie veneree si addormenta vicino ad un albero e il Dr. Traylor lo carica in macchina e lo porta a casa sua, senza che Jude si accorga di nulla. Qui lo cura, lo sfama e lo tiene rinchiuso nella stanza del piano inferiore nella quale il dottore entra solo quando ha voglia di fare i giochi perversi che tanto gli piacciono. Un giorno , dopo circa quattro mesi di prigionia, stanco del ragazzo, che aveva già provato a scappare, lo porta fuori e lo rincorre con la macchina fino a fargli esaurire le forze, quindi lo investe, causandogli tutti quei problemi che lo porteranno all’amputazione delle gambe.

Finalmente arriva Ana nella sua vita, l’assistente sociale che lo aiuta nella riabilitazione post incidente e che lo affida alle cure di una famiglia, dalla quale sta per poco tempo, fino a quando loro si trasferiscono, ma ormai Jude è abbastanza grande da potersi iscrivere all’università. Fratello Luke gli avrà pure tolto l’innocenza, ma gli ha dato una conoscenza così vasta in quattro anni, che viene ammesso a Yale.

All’università vive nello studentato con Malcom, JB e Willem e diventa molto amico di un professore di diritto, Harold, che lo introduce a casa sua.

Dopo l’università va a vivere a Lispenard Street in un appartamento fatiscente con Willem, che pare essere quello che si prenderà cura di lui, a causa delle sue disabilità. Jude lavora nell’ufficio del procuratore e inizia a farsi una fama come avvocato eccellente. Willem lavora come cameriere e intanto cerca di sfondare come attore, Malcom lavora in uno studio di architetti molto conosciuti, ma è solo uno dei tanti, e JB cerca di trovare la sua strada nell’arte.

Passano gli anni e i destini dei quattro amici sbocciano:
Willem diventa un attore famoso, che guadagna milioni per ogni film, gira più di un film all’anno in ogni parte del mondo;
Malcom fonda uno studio di architetti con la fidanzata e aprono studi sparsi nel mondo;
JB trova la sua strada nel mondo delle gallerie dipingendo le foto che fa ai suoi amici, ma, come ogni buon artista che si rispetta, è schiavo della droga, causa della quale litiga con Jude e Willem;
Jude va a lavorare in uno studio rinomato, guadagna un sacco di soldi ed è l’avvocato più temuto e conosciuto. Purtroppo spesso le gambe gli danno fastidio, quindi deve usare la sedia a rotelle, ma acquista una casa gigante, dove riserva uno spazio all’amico Willem. Viene adottato all’età di 30 anni da Harold e dalla moglie.

Quando le cose sembrano andare bene incontra Caleb, la prima relazione della sua vita. Peccato che quest’uomo non sopporti la debolezza intrinseca di Jude e della sua disabilità, tanto da portarlo ad odiarlo e a trattarlo così male umiliandolo, fino a riempirlo di botte lasciandolo a terra immerso nel suo sangue e vomito. Per fortuna viene ritrovato da Harold la mattina che lo porta da Andy, altra figura importante per Jude, il suo medico, e l’unico a sapere quasi tutto della sua vita, l’unico con il quale parli dei tagli che si fa.

Jude è diventato autolesionista da bambino, uno dei tanti insegnamenti di Fratello Luke, perché al piccolo di 10 anni, che non sopportava di essere usato come un bambolotto dagli uomini, è stato suggerito di tagliarsi, in modo da sopportare l’umiliazione che ne derivava.

Il Jude adulto è un uomo amato dagli amici, ha finalmente dei genitori, ma si sente ancora uno schifo e non meritevole di amore. L’incontro con Caleb non ha fatto altro che aumentare questi pensieri finché non decide di togliersi la vita tagliandosi i polsi. Viene fortunatamente salvato. Willem torna da un luogo lontano dove stava girando un film e da allora, se già erano tanto vicini, il loro rapporto diventa sempre più simbiotico. Lui ed Andy si mettono d’accordo per chiamarlo di notte uno e di mattina l’altro in modo da controllarlo.

Willem rifiuta persino dei ruoli lontani per stare vicino a Jude e si trasferisce da lui per non lasciarlo mai solo. E non lo lascerà più solo perché Willem si rende conto che è innamorato dell’amico, che la protezione che ha nei suoi confronti in realtà è amore ed attrazione.

Lui ci è sempre stato presentato come uno sciupafemmine, un uomo bellissimo che non sa mai stare solo. Quando gli viene quindi chiesto se è gay lui risponde: “Non mi piacciono gli uomini, io amo Jude!” Di primo acchitto non ho capito la scelta di fare innamorare i due amici, che hanno un’amicizia splendida, secondo me la storia non sarebbe cambiata molto se fossero rimasti solo amici, ma andando avanti con il libro questa scelta mi ha disturbato meno.

I rapporto tra i due, ormai uomini, è, si può dire, anomalo. Willem è molto focoso e desidera l’altro genuinamente, Jude invece deve combattere con la credenza che tutti gli uomini da lui vogliano solo sesso. Per lui non esiste fare l’amore, a lui non piace ed è pure impotente. Si lascia andare con l’amore della sua vita quasi un anno dopo che hanno iniziato la loro storia, ma smettono presto di essere fisici perché Willem capisce che a Jude questo provoca disagio.

Quando sembra che si stiano per lasciare, Jude racconta tutta le disgrazie che ha dovuto subire e Willem capisce e non gli chiederà mai più di un abbraccio, ma gli chiede di farsi aiutare da uno psicologo.

Jude deve affrontare anche la sua più grande paura: perdere le gambe. Purtroppo una ferita che si è aperta in un polpaccio non si rimargina provocando dolori insopportabili, ma quelle sono le sue gambe, anche se malandate. Durante la riabilitazione non è solo, ha tutte le persone che lo amano vicino e sempre disponibili.

Le cose sembrano andare per il meglio, lui e Willem sono felici e hanno costruito una casa nel mezzo del bosco, dove spesso vanno. Proprio quando avevano pianificato di riunirsi tutti lì per un weekend, Willem in macchina di ritorno dalla stazione con Malcom e consorte ha un incidente e tutti e tre muoiono.

Quando pensi che le cose non potrebbero andare peggio, respira e preparati ad altro dolore.

Jude perde l’amico più caro e l’unico amore che abbia mai avuto. Perde peso e vuole lasciarsi morire, ma Harold, Andy, JB e Richard lo aiutano a riprendersi. Ma la vita senza Willem non ha senso e sebbene pare stia meglio, veramente meglio, dopo circa due anni e mezzo dalla morte del suo compagno, si toglie la vita, lasciando un vuoto nei cuori dei suoi genitori adottivi, che verrà ricolmato quando troveranno casualmente il regalo che Jude aveva fatto loro il giorno dell’adozione: aveva registrato la sua voce che canta le canzoni preferite di Harold, ma dalla vergogna nascose il CD nella libreria.

Mi piace pensare che il fatto di averlo trovato così tanti anni dopo sia stato il regalo più bello che potessero ricevere.

Autore: Hanya Yanigihara
Titolo dell’opera: Una vita come tante
Titolo originale dell’opera: A Little Life
Numero di pagine: 1091
Voto: 3,5/5
Dove trovarlo: cartaceo.

Invito a una Decapitazione

Vladimir Nabokov è l’autore colpevole di aver scritto il mio romanzo preferito, ovvero Lolita (QUI la recensione di Silvia).

Per tanto tempo, dopo aver letto Lolita, non ho letto altro della produzione letteraria di Nabokov forse per paura di rimanere delusa dall’autore che era stato in grado di produrre un tale capolavoro.

Qualche tempo fa, invece, ho deciso di leggere altro e, essendo rimasta incuriosita tantissimo dal titolo, ho cominciato a leggere Invito a una Decapitazione.

Il romanzo tratta della storia di Cincinnatus, della sua detenzione e della sua condanna a morte. Cincinnatus viene portato in cella dove incontrerà dei personaggi (ricorrenti) che hanno, nella maggior parte dei casi, dei comportamenti incomprensibili e del tutto fuori luogo per la situazione e per il ruolo effettivamente ricoperto.
Cincinnatus vive la sua prigionia con rassegnazione, quasi accettazione, l’unico suo cruccio e motivo di sofferenza – oltre all’infedeltà e mancanza di amore da parte di sua moglie – è il non poter sapere, con precisione, quando sarà la data effettiva in cui verrà portato al patibolo. Quest’incertezza lo fa soffrire enormemente perché è convinto che questo non sapere sia accettabile solo per un uomo libero, ma non per chi sta aspettando la sua fine. Il giorno tanto atteso, poi, arriva, sebbene l’epilogo sarà diverso da quello che ci aspetteremmo.

La copertina dell’opera

Invito a una Decapitazione è un libro che parla, sebbene con ambientazione e personaggi diversi della dittatura bolscevica in Russia.
Lo stile e la scrittura di Nabokov sono sempre molto intensi, così come molto intensi, profondi e dolorosi sono i pensieri espressi da Cincinnatus che si ritrova solo, non tanto fisicamente, quanto emozionalmente. Circondato da persone insensibili, che non lo comprendono, non comprendono i suoi sentimenti, non comprendono la sua persona, non comprendono la situazione.
La domanda vera, forse, sarebbe “non comprendono o non gli importa?”. Durante la lettura del libro, ogni qual volta che Cincinnatus si trova in scena con altri personaggi, si viene pervasi dallo sconforto nel vedere la mancanza di tatto e di umanità nei confronti di un uomo che viene lasciato lì nel dubbio, nell’incertezza e nella solitudine più totale.

Ammetto che non è stata una lettura facile. È stato un testo (breve) che mi ha preso molti mesi per finirlo. È stata una lettura che non mi andava di fare quando, semplicemente avevo voglia di leggere, era una lettura che volevo fare quando avevo voglia di leggere esattamente questo.

Molti definiscono questo testo come “kafkiano”, sebbene Nabokov avesse dichiarato di non conoscere Kafka né la sua opera ai tempi della stesura del testo. Nabokov stesso, nella prefazione al libro, scrive: “I critici émigrés, disorientati da un libro che pure apprezzavano, credettero di cogliervi una vena <<kafkiana>> senza sapere che non conoscevo il tedesco, ignoravo del tutto la letteratura tedesca moderna, e non avevo ancora letto traduzioni, francesi o inglesi, delle opere di Kafka“.

Quasi un caso fortunato, quindi, per chi, come me, ama moltissimo la produzione letteraria kafkiana e non disegna di trovare qua e là una qualche analogia o similitudine alle opere del caro Franz.

Consiglio la lettura di questo libro, sia per la profondità di molti passaggi, sia perché Nabokov è, sì, Lolita, ma anche tanto tanto di più.

Autore: Vladimir Nabokov
Titolo dell’opera: Invito a una Decapitazione
Titolo originale dell’opera: Приглашение на казнь // Invitation to a Beheading
Numero di pagine: 222
Voto: 3/5
Dove trovarlo: cartaceo, ebook

Il Grande Gatsby

Tutti noi, almeno una volta nella vita, abbiamo sentito parlare de Il Grande Gatsby. È uno dei titoli più di successo della letteratura americana e il 99% delle persone che lo hanno letto ne parla con toni entusiastici.

Io faccio parte del restante 1%.

Probabilmente avevo delle aspettative troppo alte, forse il libro è semplicemente troppo dispersivo, forse sono io a non averne percepito e compreso la grandezza. Fatto sta che ne sono rimasta molto delusa.

Non che sia per forza di cose di cose un brutto libro… È solo che probabilmente dopo averne sentito parlare solo ed esclusivamente bene, mi aspettavo molto ma molto di più.

La trama probabilmente è nota a tutti e credo che non ci sia bisogno di spendere più di due righe a riguardo: il libro tratta della vita o, per meglio dire, del mistero che è la vita di James Gatz, un giovane ragazzo del Nord Dakota che abbandona la casa dei genitori per crearsi una vita e una nuova identità al di fuori della povertà delle sue origini.
Sul suo passato e sulle sue origni si verranno a creare tante dicerie e tanti dubbi che verranno poi brevemente dissipati durante la lettura.
Verremo a sapere che ha vissuto alcuni mesi ad Oxford, che la sua nuova vita (con tanto di cambio nome in Jay Gatsby) è iniziata a seguito di un incontro con un proprietario di yacht di nome Dan Cody che verrà ricordato da Gatsby come il suo più caro amico, scopriremo che è da anni innamorato di una donna di nome Daisy e capiremo, leggendo delle sue feste, di quanto in realtà sia solo e afflitto dalla solitudine.

La copertina dell’opera

Il tema della solidutine, infatti, è stato per me il tema centrale dell’opera.
Gatsby si circonda sempre di tantissime persone, molte delle quali a lui addirittura sconosciute o che comunque ignorano chi sia lui… Ogni sera organizza una festa nella sua villa, quasi per evitare di dover far fronte alla sua solitudine.
La solitudine di Gatsby, però, a me è apparsa veramente chiara solo nell’ultimo capito del libro, soprattutto a seguito di un determinato evento e alla promessa fatta da Nick Carraway – che è il personaggio che fa da narratore alla storia – a Gatsby che gli dice, testualmente, “Ti farò venire qualcuno, Gatsby. Non preoccuparti. Fidati di me e ti farò venire qualcuno“, come a voler sottolineare che Carraway ha finalmente capito che il dolore più grande di Gatsby era stato quello causatogli dalla solitudine e che, forse, in un certo senso, il suo crearsi questa nuova vita e questo nuovo personaggio erano anche un modo di proteggersi dal mondo esterno che sembrava averlo privato di tutto, anche del grande amore della vita.

Credo che se avessi letto questo libro senza averne mai sentito parlare prima, probabilmente mi sarebbe piaciuto di più. Forse le aspettative erano troppo altre, forse c’era una sorta di inconscio timore reverenziale che mi aveva tenuta lontana da questo libro che si è rilevato, però, infondato.

A differenza di tanti altri libri che non mi sono piaciuti e che non consiglierei, probabilmente non riuscirei a dire a qualcuno di non leggere Il Grande Gatsby, perché probabilmente è un testo che va letto con meno pregiudizi e più leggerezza… e forse è un libro che, semplicemente, va riletto.

Con dispiacere e stupore, ammetto che, per me, Il Grande Gatsby è stato un po’ una delusione. Tu, invece, cosa ne pensi?

Autore: Francis Scott Fitzgerald
Titolo dell’opera: Il Grande Gatsby
Titolo originale dell’opera: The Great Gatsby
Numero di pagine: 160
Voto: 2,5/5
Dove trovarlo: cartaceo, ebook

Dobbiamo Parlare di Kevin

Una mia conoscente, tanti anni fa, mi consigliò questo libro. Lei lo aveva letto da poco e, essendole rimasto molto impresso, decise di consigliarmelo perché era sicura, a ragione, che sarebbe piaciuto molto anche a me.

Dobbiamo Parlare di Kevin è quello che si definirebbe un romanzo epistolare e parla della vita, o meglio, di parte della vita della famiglia Khatchadourian/Plaskett.

Eva Khatchadourian, protagonista insieme a Kevin del nostro libro, è una donna forte, indipendente, che ama la sua carriera e non ha voglia di maternità o di famiglia, perché sa che rimanere incinta sarebbe un grande ostacolo per il suo lavoro.
Eva è innamorata di Franklin Plaskett, un uomo che, invece, ha voglia di costruire famiglia.
Eva resta incinta ed è per lei un duro colpo. Nasce Kevin, che dai suoi primissimi giorni dimostra essere un bambino particolare, dotato di una cattiveria fuori dal comune. La malvagità di Kevin, però, si manifesta solo ed esclusivamente quando lui è con sua madre. Non appena suo padre, Franklin, è presente, Kevin si trasforma: dal bambino cattivo, diabolico e spietato che conosce Eva, si trasforma in un bambino tenero, affettuoso, amabile.
Kevin è un bambino difficile, problematico, che sembra non avere interesse per niente, sembra di essere nato solo per poter provocare sua madre. Kevin ha un solo grande interesse: il tiro con l’arco.
Quando ha 9 anni, nasce sua sorella, Clelia, una bambina dolcissima, tenera, amorevole. Il suo opposto.
Clelia è una bimba che ama tutti, incondizionatamente: Eva prova finalmente cosa vuol dire essere amata da un figlio. Quando Clelia ha 6 anni, ha un incidente: perde un occhio in un incidente sospetto. A quanto pare, infatti, la bambina si versa sul viso della candeggina che però Eva è sicura di aver riposto in un luogo lontano e al sicuro e comincia a sospettare di Kevin. Il sospetto cresce così tanto che lei ne parla con Franklin che, esasperato, chiede il divorzio… Il peggio, però, deve ancora venire perché, se la colpevolzza di Kevin nell’incidente di Clelia non può essere provata, il suo coinvolgimento e colpevolezza in quello che da lì a poco succederà è sotto gli occhi di tutti e sconvolgerà, per sempre, la vita di Eva e di tutta la famiglia…

Basta così! Non voglio raccontare troppo, la trama di questo libro è avvincente, riserva tante sorprese, sebbene quasi tutte totalmente negative. È una lettura che ti cattura, che ti incolla alle pagine.

La copertina del libro

È un libro che, per certi versi, non è così semplice leggere, perché i temi trattati sono cupi, tristi, sconvolgenti. È un libro che parla di una madre che inizia ad imparare ad amare il proprio figlio nel momento in cui sembra più impossibile, proprio quando la speranza di provare un sentimento puro è quasi del tutto svanita.
Una storia che, nonostante il tema così spinoso, ho amato molto e che consiglio sempre a tutti, ogni volta che qualcuno mi chiede un consiglio letterario.

Nel 2011 è uscito anche un adattamento cinematografico del libro, con Tilda Swinton nei panni di Eva e Ezra Miller nei panni di Kevin.
Ammetto di non aver visto il film, se non pochi minuti… Tempo fa era su Netflix (almeno in Germania), ma non credo ci sia più.

E tu? Hai letto Dobbiamo Parlare di Kevin? Cosa ne pensi? O magari hai visto il film e ti basta quello?

Autore: Lionel Shriver
Titolo dell’opera: Dobbiamo parlare di Kevin
Titolo originale dell’opera: We Need to Talk About Kevin
Numero di pagine: 478
Voto: 4/5
Dove trovarlo: *si trova solo in inglese*

Una cosa divertente che non farò mai più

Nella mia lista dei sogni e progetti c’è di sicuro una crociera. Mi immagino a prua a guardare l’oceano cercando di scorgere i delfini in lontananza, ma soprattutto a rimanere distesa su una sdraio a non fare assolutamente nulla che non sia mangiare o scegliere la prossima attività da fare

Tutto quello che potremmo immaginarci di piacevole in una crociera, viene guardato con occhio distaccato da David Foster Wallace e messo sotto una lente critica che rende ogni dettaglio tragicomico.

La copertina del libro

Ma allora perché ha fatto una crociera se non gli piacciono queste cose?

Il libro è nato da un reportage che la rivista Harper’s gli commissionò. lo scrittore avrebbe dovuto raccontare com’è una crociera extra lusso sulla nave Nadir per sei giorni e sette notti di visita dei Caraibi. Quello che sarebbe un sogno praticamente per tutti, viene analizzato con distacco, come se tutto quello che accade, dall’attesa per la partenza, alle cene alle quali partecipa, non stia accadendo a lui.
Il perché di fare una vacanza su una crociera extra lusso la si legge in questa frase:

Una vacanza è una tregua dalle cose sgradevoli e poiché la coscienza della morte e della decadenza è sgradevole, può sembrare strano che la più sfrenata fantasia americana in fatto di vacanze preveda che si venga schiaffati in mezzo a una gigantesca e primordiale macchina di morte e decadenza.

Le situazioni più divertenti

Un passeggero non può trasportare la propria valigia

Sicuramente il capitolo che più mi ha divertita è il nono nel quale vengono descritti i particolari del lusso, quel lusso che tanto viene ripetuto nella pubblicità.
L’equipaggio della Nadir si occupa dei proprio passeggeri dall’arrivo in aeroporto, dove vengono prese in carico le valigie che poi verranno portate direttamente in cabina. David Foster Wallace, che necessitava di vedere la nave allontanarsi dal porto e non voleva bruciarsi per il forte sole, descrive il momento in cui è andato alla ricerca dello zinco da mettersi sul naso, che si trovava nella sua sacca. Si dirige quindi nella hall dove si trovano i facchini intenti a organizzare le valigie da consegnare ai legittimi proprietari. Lui vedendo la sua sacca cerca di prenderla, ma viene subito bloccato da un ragazzo dell’equipaggio che la vuole consegnare di persona. Questa scena mette il facchino in una situazione non facile: si trova in bilico tra “IL CLIENTE HA SEMPRE RAGIONE” e “IL CLIENTE NON DEVE MAI PORTARE I SUOI BAGAGLI“. Vince la prima sulla seconda, ma non senza ripercussioni. Infatti mentre lo scrittore si trova sul ponte, il facchino subisce una lavata di capo.
Come epilogo, Wallace riceve una visita di scuse da parte dell’ufficiale delle Relazioni con il pubblico, che lo fa render conto dell’infelice situazione nella quale ha messo il facchino per quel suo gesto bonario. Ci tiene però a farci sapere che ha fatto promettere all’ufficiale di non licenziare il ragazzo.

Lenzuola fresche ad ogni uscita

La cabina viene pulita e riordinata e le lenzuola e gli asciugamani cambiati quando la si lascia per più di 30 minuti. Se si sta fuori meno tempo invece non viene ripulita, ma neanche si trova la cameriera intenta a pulire la cabina. Come facciamo a saperlo? David Foster Wallace ha fatto varie prove nei sei giorni di navigazione: ha provato ad uscire per 10, 20 e per 29 minuti e ad ogni suo rientro ritrovava il sudiciume lasciato, ma se andava in giro dai 31 minuti in su, la sua cabina brillava e il cioccolatino veniva lasciato sulle lenzuola fresche.
Sebbene abbia fatto vari esperimenti come girare l’angolo improvvisamente per cogliere in fallo la donna delle pulizie, o fare vari giri, sempre diversi, per cercare di capire se venisse seguito, non è riuscito a capire come questo fosse nel potere dell’equipaggio della Nadir. Non è riuscito neppure a vedere se ci fossero delle telecamere nascoste nei corridoi. Rimarremo pure noi con questo dubbio, ma è sicuramente interessante immaginarsi lo scrittore che svoltato l’angolo fa uno scatto e torna nella cabina, ma rimane deluso di non trovarci la cameriera intenta a ripulire.

Le note a piè di pagina sono il vero spasso

Le note a piè di pagina

La parte sicuramente più divertente rimangono le note a piè di pagine, presenza quasi ingombrante, tanto che occupano persino due pagine intere del libro da sole.
Questi commenti personali non sono stati creati per comparire sulla rivista, quindi David Foster Wallace si è lasciato andare ad ogni commento più sagace e approfondito di ogni singola cosa o passeggero che si sia trovato di fronte durante quei sei giorni e sette notti, commentando pure i discorsi delle cene alle quali ha partecipato.

Come commento finale io consiglio a tutti di leggere Una cosa divertente che non farò mai più, anche solo per sapere esattamente cosa succede in una crociera extra lusso. Simpatico e frizzante è difficile da chiudere e non finire tutto d’un fiato, è sicuramente un ottimo rimedio per il temuto blocco del lettore.

Autore: David Foster Wallace
Titolo dell’opera: Una cosa divertente che non farò mai più
Titolo originale dell’opera: A Supposedly Fun Thing I’ll Never Do Again
Numero di pagine: 164 pagine
Voto: 5/5
Dove trovarlo: Libro, ebook, audiolibro.

Se niente importa… Una riflessione.

Da qualche tempo a questa parte, già molto prima che la pandemia Covid-19 ci mettesse di fronte alla vera fragilità del nostro pianeta, della nostra salute e delle nostre convinzioni , mi ero ritrovata a riflettere sulla probabilità di provare a cambiare le mie abitudini alimentari, per cercare di eliminare completamente il consumo di carne e pesce dalla mia dieta.

L’alimentazione, ma più precisamente il piacere derivante dal mangiare un qualcosa di appetitoso, è un elemento centrale della vita di ognuno di noi e per questo, ogni tentativo di cambiare certe abitudini con le quali nasciamo, cresciamo e diventiamo adulti diventa incredibilmente difficile, se non troviamo qualcosa che, per noi e per la nostra sensibilità, ci spinge a fare un passo che non sempre sarà semplice non rimpiangere.

Ad inizio maggio, quando ancora ci sembrava di vivere in un racconto distopico, ho iniziato a leggere il saggio di Jonathan Safran Foer intitolato Se niente importa. Perché mangiamo gli animali? e mi sono resa conto che era la sveglia o, per meglio dire, la terapia d’urto di cui avevo bisogno.

Il saggio riporta molti dei dati (anche dell’OMS) raccolti dall’autore in tre anni di ricerche, interviste ad attivisti animalisti e allevatori e riflessioni sull’eticità delle nostre scelte alimentari.

Il quadro che ne esce è nella stragrande maggioranza dei casi totalmente sconcertante: il maltrattamento inaudito nei confronti di animali fatti nascere e crescere in modo totalmente meccanico, a cui viene tolta la possibilità di avere uno spazio entro il quale muoversi, a cui viene tolta la possibilità di vedere la luce del sole, a cui viene tolta la possibilità di poter essere sani – essendo costantemente imbottiti di medicinali che velocizzano la loro crescita ma ne annullano il sistema immunitario -, a cui viene tolta la possibilità di vivere.

Animali annullati della loro dignità e della loro forza, animali vivi costretti in spazi strettissimi insieme ad altri animali malati o morti o in putrefazione. Un covo di potenziali batteri che causano malattie mortali che non aspetta altro di diffondersi in più organismi possibili, tra cui quello umano, attraverso lo spillover, ovvero il salto di specie.

Ci ricorda qualcosa?

L’autore ci porta con sé e ci fa vedere, attraverso i suoi occhi, quello che vede lui quando, insieme ad un’attivista per i diritti degli animali, ci fa intrufolare in un allevamento intensivo, in piena notte, rischiando la pelle per il semplice fatto di essere lì. Perché riuscire ad avere il permesso di visitare un allevamento intensivo, semplicemente, è impossibile. Ci viene raccontato di come i governi si impegnino falsamente per garantire agli animali la dignità che meriterebbero, e ci viene raccontato di come i pezzi da novanta dell’industria agroalimentare siano invischiati fino ai capelli con la politica e di quanto siano troppo potenti per poter pensare di fare qualsiasi cosa per fermarli o per, almeno, imporgli di adottare dei metodi di macellazione dignitosi e che non infliggano sofferenze sadiche e crudele agli animali.

Il libro è stato pubblicato nel 2009 e leggerlo nel bel mezzo di un lockdown indetto per provare a contenere una pandemia diffusasi da un wet market di Wuhan mi è sembrato quasi uno scherzo di pessimo gusto fattomi dal destino, perché leggere in un libro di 11 anni fa delle ricerche e dati pubblicati dall’Organizzazione Mondiale della Sanità e vedere quanto fosse chiaro allora (e chissà da quanto tempo prima) che la situazione sanitaria mondiale era una bomba ad orologeria destinata a scoppiare da un momento all’altro, perché lo sfruttamento degli animali, l’allevamento intensivo, la mancanza di norme igieniche avrebbero finito col portare allo scoppiare di una nuova ed incontrollabile malattia, fa rabbia. Ma anche tanta tristezza.

Il titolo in italiano dell’opera, prende spunto da una conversazione avuta in gioventù dall’autore con sua nonna, sopravvissuta all’Olocausto che gli raccontava che una volta fuori dal campo di concentramento, un contadino russo le aveva offerto un pezzo di carne di maiale che lei, nonostante la fame, rifiutò perché non kosher, perché se niente importa, non c’è niente da salvare.

Voglio concludere questo articolo con la riflessione che, forse, più di tutto mi ha colpita durante la lettura e che più di tutto mi ha spinta a prendere una decisione che è mia e che non imporrei comunque ad altri: il piacere che noi proviamo nel mangiare carne e/o pesce, giustifica tutte le sofferenze che infliggiamo agli animali? Cinque minuti di nostro piacere giustificano intere vite di privazioni, maltrattamenti e dolore come quelle che riserviamo agli animali? Secondo me no. Tu, invece, cosa ne pensi?

La copertina dell’opera
Autore: Jonathan Safran Foer
Titolo dell’opera: Se niente importa. Perché mangiamo gli animali?
Titolo originale dell’opera: Eating Animals
Numero di pagine: 363
Voto: 5/5
Dove trovarlo: libro, ebook, audiolibro